L’attenzione che, giustamente, a livello istituzionale, giurisprudenziale, dottrinario e di dibattito pubblico era stata posta negli ultimi anni sul gioco d’azzardo patologico sembra in tempi più recenti andare scemando, quasi che il fenomeno stesse scomparendo.
La realtà, tuttavia, è ben diversa. I dati che l’Agenzia delle dogane e dei monopoli registra nel suo Libro Blu 2020, che sintetizza l’attività dell’Ente nell’anno precedente, sono infatti piuttosto allarmanti e giustificano non solo il mantenimento di un’alta dell’attenzione ma anche la ricerca di nuovi strumenti regolatori di contrasto e prevenzione. In particolare, durante il primo anno di pandemia, la raccolta del gioco è stata di 88,38 miliardi: in netta flessione, certo, di circa il 20% rispetto al passato, ma pur sempre su livelli affatto trascurabili. Anche le entrate fiscali conseguenti al gioco, pari a 7,24 miliardi, sono ancora assai rilevanti, pur registrando una flessione superiore al 30%, laddove il calo del gettito erariale più elevato di quello delle giocate si spiega per il fatto che, per la prima volta, la raccolta del gioco on line ha superato quella delle modalità tradizionali e la tassazione, in questa fattispecie, si assesta su valori inferiori. La questione, allora, è chiara: il gioco si “vede meno”, perché passato sulla rete, ma non è scomparso, e ciò che più preoccupa è che a crescere tra i giocatori sia soprattutto la fascia di età 18-24, evidentemente più avvezza all’uso della rete e particolarmente vulnerabile, peraltro con giocate medie paragonabili a quelle di altre fasce di età.
Mentre, dunque, assistiamo a questo spostamento da una forma di gioco ad un’altra più “subdola”, nel senso che può più agevolmente attrarre i più giovani (anche minori, che più facilmente riescono ad eludere i divieti di legge) e che naviga in una sorta di limbo, in cui la tassazione è inferiore e le regole non sono né certe né stringenti come nel gioco tradizionale, anche rispetto a quest’ultimo si registra un calo di attenzione da parte della giurisprudenza, che sembra abbandonare consolidati orientamenti volti a privilegiare la tutela della salute del giocatore rispetto agli interessi economici di chi fa del gioco oggetto di attività imprenditoriale (seppure in modo perfettamente lecito). Basti ricordare che il TAR dell’Emilia-Romagna, nel dicembre 2021, ha sospeso l’ordinanza di un Sindaco, in quanto la restrizione a otto ore di apertura delle sale, peraltro da sempre ritenuta misura congrua e proporzionata, non sarebbe stata sorretta da idonea istruttoria sulla perdurante emergenza della ludopatia, poiché i dati dell’ASL assunti a fondamento del provvedimento si riferivano ad un periodo pre-pandemico. E siccome è ovvio che i dati successivi registreranno un calo, senza contare che comunque il ricorso alle strutture sanitarie è su base volontaria da parte del giocatore, che peraltro può ora più agevolmente dedicarsi a questa attività ovunque si trovi e in qualunque momento, ci troviamo di fronte ad un fenomeno che, con un percorso carsico, sembra in questa fase riassumere forme sommerse, con il paradosso di far diminuire la tutela anche per quelle che invece restano palesi.
Che questa non sia una pronuncia isolata lo dimostrano le due ordinanze con cui la V sezione del Consiglio di Stato, nei primi mesi del 2022, ha sospeso l’efficacia di due provvedimenti di chiusura di sale da gioco per mancato rispetto delle distanze dai luoghi sensibili, ritenendo che i provvedimenti fossero tali da giungere, di fatto, alla totale espulsione dell’attività economica in questione dal territorio comunale, in modo perciò non proporzionato all’interesse pubblico che essi intendevano proteggere. Se questo trend giurisprudenzale preoccupa, va rilevato, però, che al contempo si può registrare anche qualche segnale positivo. In primo luogo, l’istituzione da parte del Senato, il 22